Home Digitale Plantvoice: perché l’agricoltore del futuro deve “sporcarsi le mani” con la tecnologia

Plantvoice: perché l’agricoltore del futuro deve “sporcarsi le mani” con la tecnologia

Oggi l’agricoltore è più simile a uno scienziato che a un lavoratore manuale, gestisce macchine, analizza dati e ottimizza l’uso di fitofarmaci e nutrienti. Negli ultimi anni, il rapporto con la tecnologia è migliorato grazie a sistemi e prodotti più efficienti, che hanno spinto gli agricoltori a sviluppare competenze in IT e big data, partecipando attivamente alla creazione delle tecnologie. Queste ultime permettono infatti di occuparsi in modo più intelligente delle risorse, evitare sprechi, prevenire infestazioni e contenere i danni delle situazioni avverse. E se fosse proprio la tecnologia ad attrarre i talenti nel settore agricolo? Il punto di vista di Tommaso Beccatelli, imprenditore agricolo, CTO e Co-Founder di Plantvoice.

Quando una nuova tecnologia irrompe nel sistema produttivo, il primo pensiero va alla potenziale perdita di posti di lavoro. Il caso emblematico è quello della AI generativa, che potrebbe mettere a rischio molte delle professioni di analisi ed elaborazione dei dati, scrittura di testi o produzioni di immagini. Segretari, analisti, addetti ai call center ma anche avvocati, medici e giornalisti sono tutti sotto la lente. È già successo in passato: negli anni Sessanta, quando i primi robot antropomorfi sono entrati nelle fabbriche, molti degli operai con mansioni a minor valore aggiunto sulla linea sono stati sostituiti. Altre tipologie di robot, però, hanno rafforzato e valorizzato il lavoro umano, come per esempio gli androidi in ambito medico, che affiancano i chirurghi in sala operatoria o accelerano la riabilitazione dei pazienti.

Agricoltura 4.0: tecnologia a tutela delle risorse per sfamare tutto il pianeta

Tommaso Beccatelli, imprenditore agricolo, CTO e Co-Founder di Plantvoice
Tommaso Beccatelli, imprenditore agricolo, CTO e Co-Founder di Plantvoice

Un settore dove la tecnologia sta cambiando profondamente il modo di lavorare, con l’effetto di tornare ad attrarre talenti anziché allontanarli – soprattutto Millenial e Gen Z – è quello dell’agricoltura. O, per dirlo con un linguaggio da terzo millennio, l’agritech. Tutta la ricerca in questo settore parte da un fondamento: la scarsità di risorse conseguente all’aumento della popolazione mondiale. Le stime dicono che nel 2050 saremo 10 miliardi di persone sul pianeta Terra, mentre i fatti evidenziano che il terreno coltivabile si va esaurendo. Ogni anno 10 milioni di ettari di terre vengono convertiti per attività agricole, una minaccia per la biodiversità e per la sopravvivenza dell’ecosistema: proseguendo con questo ritmo, entro il 2050 sarà necessaria un’ulteriore area di dimensioni paragonabili a quella del Brasile per soddisfare la crescente richiesta di cibo. Uno scenario evidentemente non sostenibile.

È qui che subentrano le nuove tecnologie agritech, dove il digitale si sostituisce alla chimica per proteggere le colture, aumentare la resa dei terreni e ottimizzare l’utilizzo di risorse cruciali come l’acqua. In questo contesto l’agricoltura 4.0 è destinata a crescere esponenzialmente. McKinsey calcola che il mercato oggi abbia un valore di 21,5 miliardi di euro e possa segnare un aumento dell’8% annuo fino al 2026. Anche in Italia, i dati ricavati dall’Osservatorio Smart Agrifood del Polimi e dal Centro Studi TIM, segnala che nel 2023, il fatturato delle aziende che offrono soluzioni 4.0 per l’agricoltura ha raggiunto la cifra di 2,5 miliardi di euro, con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente.

Agri-tech: perché la tecnologia è un elemento creativo di valore e come cambia il ruolo del contadino

L’assunto di base di quest’epoca è che le risorse agricole debbano essere sfruttate in maniera più intelligente, evitando lo spreco e aumentando le rese. Digitalizzazione e tecnologia possono aiutarci sia ad aumentare la produttività sia a tutelare la salute delle piante. Come? Con la riduzione dell’uso di pesticidi e insetticidi in quanto le malattie vengono individuate e affrontate nelle prime fasi dell’infezione e ottimizzando l’uso dell’acqua (il 70% del consumo idrico mondiale dell’uomo è destinato all’agricoltura e il 60% di quest’acqua viene sprecata, a causa di sistemi di irrigazione inefficienti).

Il mestiere del contadino è destinato ad evolversi e a mutare assieme con questi cambiamenti. L’agricoltore molto difficilmente potrà ancora essere assimilato a un lavoratore manuale: oggi è più uno scienziato in camice bianco, un tecnico che si assicura che gli aratri siano perfettamente funzionanti, un ricercatore che analizza i dati raccolti sul campo dai sensori e quelli satellitari sullo stato di salute della terra e delle piante, un matematico e chimico che calcola in maniera ottimale l’utilizzo di fitofarmaci e nutrienti in modo da abbattere i costi e conservare la salubrità di frutta e verdure.

Il cambiamento è recente: per decenni gli agricoltori hanno avuto un rapporto conflittuale con la tecnologia anche per l’assenza di prodotti realmente efficienti. Con l’evoluzione di questi ultimi, in effetti, la relazione è migliorata progressivamente e oggi, chi coltiva la terra, sa di dover espandere le proprie competenze a IT e big data e riconosce che la tecnologia aggiunge valore soprattutto se partecipa al progetto di creazione della stessa ponendo le domande giuste.

Cosa chiede alla tecnologia il nuovo agricoltore tech (e in che modo deve accrescere le proprie competenze)

Finora chi coltiva la terra si è affidato alla percezione individuale, per decidere quanto e quando irrigare e in che momento e in che quantità fare trattamenti fitofarmacologici. Le risposte che arrivano dai device attualmente in uso sono infatti solo parziali o relative a una porzione di terreno ampia o probabilistica, il che lascia un’ampia discrezionalità, ma qualcosa sta cambiando. Oggi la tecnologia sta tentando di dare una risposta efficiente alla domanda di mercato che vuole indicazioni precise su come e quando intervenire, con l’obiettivo di risparmiare risorse e aumentare le rese dei terreni senza aumentare in misura proporzionale i costi. È un tema particolarmente importante in un Paese come il nostro dove le superfici sono in diverse aree orograficamente difficili.

Nella nostra azienda, io e molti dei miei colleghi, ci siamo per esempio accorti che avevamo un grosso pregiudizio verso le tecnologie sensoristiche cosiddette “indirette”. Con queste tecnologie l‘informazione relativa allo stato di salute di una pianta arriva troppo tardi rispetto alla necessità di intervenire tempestivamente per porre rimedio ad un eventuale problema, il che le rende utili, ma non risolutive. Per questo con mio fratello abbiamo sviluppato una tecnologia sensoristica diretta, Plantvoice: essendo direttamente integrata all’interno della pianta, oltre a vedere il flusso di linfa in tempo reale, riesce anche a determinare la sua composizione e a dare all’agricoltore informazioni utili ad intervenire prima che il problema possa diventare non risolvibile. Una tecnologia così, che permette di risparmiare acqua, usare meno fertilizzanti, produrre prodotti migliori dal punto di vista del gusto e anche belli, non si può combatterla: la integri.

Un’altra tecnologia interessante è quella sviluppata dalla startup californiana Pivot Bio, con sede a Berkeley, che sfruttando l’ingegneria genetica per cercare di intervenire sulla fertilizzazione delle piante attraverso il potenziamento dei diazotrofi, aumentandone la loro efficienza nel fissare l’azoto nei terreni. Il lavoro di questa interessantissima start-up rientra nell’ambito di dare alle piante la capacità di autofertilizzarsi, dicendo addio ai fertilizzanti sintetici ricavati dagli idrocarburi diminuendo così l’inquinamento atmosferico e la dipendenza del mondo agricolo dai colossi petroliferi o dai petro-Stati. La risposta del mercato a questa tecnologia è stata molto positiva. Sembrerebbe che questo tipo di fertilizzante biologico è stato usato nel 2023 su oltre due milioni di ettari di terreni agricoli negli Stati Uniti. In alcuni articoli si legge che secondo l’azienda, i batteri fertilizzanti potrebbero sostituire il 20 per cento delle soluzioni chimiche usate di solito nei campi di mais. Un risultato eccezionale!

L’agricoltore del futuro dovrà sempre più dialogare con i fornitori di tecnologia, avere competenze di geo- referenziazione, di agronomia per capire i vari stadi di sviluppo della pianta, di analisi dati per interpretare correttamente quelli che raccoglie dal campo. E non c’è tempo da perdere: se si resta fermi sulla rappresentazione tradizionale del contadino, scarpe grosse e cervello fino, ci si muove nel passato. È un’evoluzione che indica una strada obbligata.

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